Guerra del Golfo e nuovo ordine mondiale

di Jacques Wajnsztejn

Traduttore : Riccardo d'Este

articolo estratto da : AA.VV., La guerra e il suo rovescio, Nautilus, Torino 1991.

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Piccola radiografia dell'organizzazione del mondo

Il sistema capitalista planetario si fonda su una divisione internazionale del lavoro in due grandi gruppi.

Il primo gruppo comprende i paesi a capitali dominanti: gli Stati Uniti e la maggior parte dei paesi della CEE. Paesi in cui la produzione materiale è sempre meno importante1. Il carattere sempre più astratto del lavoro lo distanzia da quanto viene realmente prodotto, che sembra possedere una sua propria finalità. La produzione per la produzione ed il profitto ha lasciato il posto ad una produzione per la riproduzione globale del sistema capitalista. Ed il profitto non può venir valutato se non rispetto a questo risultato finale. L'essenziale è la gestione del sistema e la produzione materiale è stata progressivamente spostata verso i paesi a capitali dominati. Questa gestione passa attraverso importanti intermediari nazionali: grandi banche, amministrazioni, forti aziende che, tutte, funzionano sul modello tecnoburocratico di Stato.

Tre contraddizioni principali corrodono questi paesi industrializzati del «centro»: anzitutto lo statuto indiretto e dopo tutto subordinato del profitto non consente una padronanza totale della redditività d'insieme. lndebitamento illimitato, crisi di borsa, inflazione, fanno parte del quadro; inoltre l'economia di mercato, tanto sbandierata dagli uomini politici e dai media, viene di fatto tollerata soltanto per la necessità di una riproduzione al minimo costo delle merci destinate alla soddisfazione dell'utente-consumatore, ma la base del sistema è già oltre questa realtà primaria. Dietro una guerra commerciale che sembra consacrare la vittoria del mercato e del libero scambio, i più forti provvisoriamente tentano di imporre un protezionismo che prende in prestito i suoi principi dal defunto Comecom2: infine, per questi paesi la gestione delle 'risorse «umane» diventa essenziale, poiché esse sono la loro sola vera ricchezza. Ma questa gestione risulta difficile perché queste risorse umane divengono sovrabbondanti a causa della quantità sempre maggiore di capitale-macchina introdotto nella produzione e nell'organizzazione della società.

Il secondo gruppo è costituito dai paesi a capitali dominati, i paesi della produzione materiale in cui lo sfruttamento del lavoro resta più estensivo che intensivo. Estrazione di plusvalore assoluto e pompaggio delle ricchezze nazionali in quanto a materie prime sono appannaggio delle grandi società nazionali o soprattutto multinazionali che operano sotto la copertura dei regimi autocratici locali sostenuti dalle grandi potenze.

Questo insieme raggruppa sia dei paesi ricchi, come quelli produttori di petrolio, sia dei paesi poveri che hanno il compito di fornire prodotti alimentari e tecnologia primaria ai paesi occidentali.

Al margine (ma non marginalmente!) di questa grande divisione, la Germania ed il Giappone costituiscono due casi particolari; la Germania si sviluppa al margine dei capitali dominanti: è ancora un paese produttore, il suo settore secondario è ipertrofico rispetto al modello occidentale attuale ed ha il compito di riorganizzare l'economia produttiva di alcuni paesi dell'Est; il Giappone, invece, è al margine dei paesi a capitali dominati: la sua produzione è essenzialmente destinata all' estero (come quella dei «Quattro draghi"), per fornire ai paesi dominanti prodotti manifatturieri. Lo sfruttamento della sua manodopera e il suo ordine sociale sono specifici: il salariato generalizzato non ha prodotto né l'individualismo né il fordismo, bensì un misto di arcaismo e di modernità.

L'organizzazione del mondo e la potenza militare

Da parecchi anni, dunque molto prima dei cambiamenti in URSS, si poteva individuare un'organizzazione piramidale dell'ordine mondiale. Al vertice si trovano gli stati-gendarmi, suddivisi a loro volta in gendarme mondiale (USA), gendarmi regionali (Francia e Gran Bretagna in Africa e in Medio Oriente; URSS nel Medio Oriente, nell'Est dell'Europa e in una parte dell' Asia) e infine gendarmi locali (Iraq, Israele, Siria nel Medio Oriente).

Ciò che accomuna tutti questi paesi, piccoli o grandi che siano, è una potenza militare sproporzionata rispetto alla loro potenza economica. Tuttavia questo gruppo non è omogeneo ed esiste una gerarchizzazione determinata dal grado di potenza militare, dall' estensione del campo di intervento e dalla padronanza tecnologica degli armamenti3. L'intervento militare o la pacificazione delle regioni calde deve essere affrontato in ogni momento anche se la situazione normale è la pace (Consiglio di sicurezza dell'ONU). La precarietà di questo sistema consiste nel fatto che lo scopo di questi paesi è la difesa dei propri interessi particolari in un quadro imposto dalla salvaguardia globale del sistema.

Alla base della piramide si ritrovano, da un lato, paesi produttori a capitali dominati (Nuovi Paesi Industrializzati, paesi produttori di materie prime o di prodotti agricoli esportabili) e, dall' altro, i paesi produttori con forti eccedenze, quali sono la Germania ed il Giappone. Eccedenze che devono permettere il finanziamento dell' ordine mondiale. La Germania si occuperà, per esempio, dell'integrazione economica dei paesi dell'Est, il Giappone finanzierà il deficit americano e le spese di guerra nel conflitto del Golfo. Per questi due paesi la notevole potenza economica non corrisponde ad un ruolo direttivo dal punto di vista strategico e militare. Questo è un effetto dell' ordine scaturito da Yalta, ma la contraddizione che ne deriva oggi non è piccola ed influenza gli elementi che hanno potuto portare alla guerra.

Il progressivo instaurarsi del nuovo ordine mondiale ha potuto aver luogo solo con l'avallo dell'URSS, che, a patire dalla guerra in Afghanistan, ha riconosciuto la sua incapacità di mantenere una politica dei blocchi, fondamento della bipolarizzazione del mondo. La sua attuale azione nelle repubbliche sovietiche e particolarmente nei paesi baltici sembra rientrare nei suoi nuovi còmpiti di gendarme regionale accreditati dal laisser-faire americano.

C'è una grossa differenza tra questo nuovo ordine mondiale e quello nato direttamente dalla IIª Guerra Mondiale. Ai tempi della bipolarizzazione del mondo, il «nemico» era conosciuto e visibile anche se, nell'assenza di un conflitto aperto e generalizzato, procedeva spesso mascherato o in modo indiretto, tramite un conflitto locale interposto. Le regole del gioco erano chiare. Non è più così ora che non c'è più nemico, che il sistema non trae più la sua coesione dalla divisione in due blocchi ma dalla sua unificazione. In questo caso, è molto difficile prevederne le falle e, anche se vi può essere una certa coscienza dei rischi, la logica d'insieme spinge alla fuga in avanti. Questo è chiarissimo nella situazione attuale: alcune settimane soltanto dopo le famose decisioni di distruzione o riduzione degli armamenti americano-sovietici, si vede comparire alla luce del sole la corsa agli armamenti delle potenze locali. È questo riarmo generalizzato, rafforzato dal ripiegamento sovietico, a cancellare la realtà dei rapporti di forza riconosciuti. Fino a dove ci si può spingere, si chiedono l'Iraq, Israele e la Siria, una volta svolto il loro còmpito di mantenimento dell'ordine nella loro zona di influenza? La tentazione è forte.

Tutto questo rende fragile la bella programmazione del nuovo ordine mondiale. Infatti, se pur realizzata, l'unificazione del mondo soffre ancora di alcune imperfezioni dovute a questioni ancora irrisolte, come quella del Medio Oriente e del «problema» palestinese. Si tratta dunque di un terreno particolarmente sensibile ed in questo senso la guerra del Golfo non è una sorpresa anche se non l'avevamo prevista. La sorpresa è rappresentata piuttosto dall'aspetto di «lascia o raddoppia» dell'impegno dei due attori principali e dall' alto numero di partecipanti secondari. Come spiegarlo? Anche se questo fattore interviene come uno dei vari elementi, i motivi economici di un controllo sul petrolio non possono spiegare un tale dispiegamento di forze. Non si tratta neppure, contrariamente a quanto ci viene continuamente ripetuto, di opporsi alla dittatura di Saddam Hussein perché tutti i paesi (salvo Israele) lo hanno armato ed appoggiato contro !'Iran e i regimi kuwaitiano e saudita sono altrettanto detestabili. Ciò si può spiegare solo con l'importanza della posta in palio reale: la direzione del sistema mondiale. In un mondo iperarmato, in cui ormai la potenza politico-militare e quella economica si sono scollegate, occorre provare la necessità e la praticabilità del nuovo ordine mondiale. Gli Stati Uniti puntano forte: la loro azione è un avvertimento, tramite l'Iraq, a qualsiasi potenza militare locale che fosse tentata dall' avventura ed anche un avvertimento indiretto alla Germania ed al Giappone, paesi sui quali dovrà far pressione prossimamente4. La Gran Bretagna e la Francia, antiche potenze coloniali ma ora gendarmi regionali, non hanno altra scelta che di seguire gli Stati Uniti per dimostrare l'efficienza del loro armamento, ma altresì nella speranza di fare anche bella figura nelle trattative del dopoguerra. Se la Francia si sforza di mantenere una sua posizione particolare, più distaccata, ciò deriva da un retaggio della strategia gollista nel mondo bipolarizzato dell'epoca precedente. La Francia come immagine di una terza via, la Francia amica degli arabi e dell' Africa. Questa posizione oggi è antiquata perché non c'è più seconda o terza via possibile e da ciò nasce l'isolamento di qualche gollista duro o di Chevènement5. Il consenso politico dei partiti, benché filoiracheni sino al giorno prima, non è una follia guerresca o una sacra unione, ma una semplice consapevolezza dei cambiamenti avvenuti nel mondo6.

Ordine mondiale e pace sociale

Questa organizzazione del mondo non è soltanto frutto della struttura complessa, fredda ed impersonale del Capitale. Infatti, la forza di coesione racchiusa nelle società occidentali, nonostante la loro forte gerarchia sociale, si basa su una sorta di coscienza dei loro privilegi, che le definisce come società della soddisfazione democratica dei bisogni7. Questo costituisce un elemento di consenso, di cemento sociale che abbiamo troppo spesso dimenticato o messo da parte probabilmente per una diffidenza di principio nei confronti di tutto ciò che potesse ricordare le tesi terzomondiste sull' opposizione tra paesi borghesi e paesi proletari. Benché ogni paese mantenga un orientamento specifico (leadership americana, pretese internazionali francesi), dobbiamo costatare giocoforza che oggi ad avere il predominio è la loro organizzazione in un sistema-mondo che essi dominano (FMI, banca mondiale, ONU, programma militare comune) come una nuova classe dominante. Questo inatteso sbocco delle contraddizioni del capitalismo spiega in parte l'incomprensione, nei nostri paesi, del ruolo svolto e che continuano a svolgere, con degli spostamenti, i conflitti di classe su scala planetaria8.

Nei paesi industrializzati moderni, i conflitti interni, ormai inesprimibili secondo i termini dell'ideologia della lotta di classe, sfumano lentamente in opposizioni e battaglie di categoria. Ne deriva la tendenza ad accordarsi, all'interno di queste nazioni, su un modello di vita e di comportamenti i cui criteri sarebbero definiti dai nuovi ceti medi (mescolanza di antichi valori piccolo-borghesi e di nuove aspirazioni al consumo, alla moda, al divertimento). Questa tendenza si vede rafforzata dall'abbandono dei valori proletari o comunisti che, nel bene e nel male e nonostante gli accessi di nazionalismo o di razzismo, portavano avanti i concetti di solidarietà e di interesse collettivo. Il proletariato è scomparso come soggetto agente. Le reazioni di molta gente alla guerra del Golfo sono rivelatrici sotto questo aspetto: insistere sulla tirannia di Saddam è spesso la forma politica assunta dalla buona coscienza umanista di cui si può facilmente scoprire la vera natura: la difesa dei ceti medi occidentali. E, come spesso accade «a sinistra», gli atteggiamenti rinunciatari si accompagnano al massimo cinismo: perché rinunciare ad una vita facile quando i paesi del Terzo Mondo dimostrano ogni giorno di essere incapaci di utilizzare bene il loro denaro o, peggio, quello che noi gli diamo e di svilupparsi così sul nostro modello? Perché pagare caro o abbandonare a loro il controllo delle loro materie prime, dato che questo denaro non andrà alle popolazioni ed equivale a lasciargli in mano un' arma di ricatto? Ci si difende da tutto ciò proclamando con forza che non si tratta di una guerra Nord-Sud e che non c'è dunque colpa nello stare nel campo del Nord.

Ma non dobbiamo confondere Nord con ricchi, Sud con poveri, come non dobbiamo confondere Stato e popolazioni. L'Iraq è sì un rappresentante del Sud, ma di un Sud che mangia alla stessa tavola del Nord a differenza del Ciad o del Bangladesh. Per questo l'Iraq appariva pericoloso. In effetti, chi potrebbe aver paura di un Sud denutrito che combattesse a mani nude? D'altra parte, all'Iraq non importa un bel niente di questo Sud e sarebbe pronto a vendergli il petrolio ancora più caro.

Diritto internazionale e nazioni

Il diritto internazionale è una trascrizione giuridica dei rapporti di forza mondiale in un momento storico preciso. Ha consacrato uno dopo l'altro il diritto dei più forti (Realpolitik del XIX secolo), il diritto al servizio dei vincitori (Società delle Nazioni poi ONU ai suoi inizi), infine il diritto dei popoli a disporre di se stessi con l'ONU della decolonizzazione. Ma questo diritto era solamente formale poiché non poteva esprimersi che nel quadro della politica dei blocchi (si veda il fallimento dei tentativi neutralisti a Bandung di Nehru, Tito e Sukarno). Le nuove indipendenze nazionali vedevano così la loro libertà subito ridotta dall' obbligatorio allineamento ad uno dei due blocchi. I nazionalismi africani e soprattuto arabi ne sono stati limitati9. Ma dagli inizi degli anni Ottanta, le ribellioni contro l'ordine mondiale non provengono più da correnti nazionaliste in calo, ma da correnti populiste-religiose10, come in Iran o in Libano. Se prendiamo ad esempio l'Iran, vediamo che questo paese pone di colpo la sua lotta a livello di un'immensa area geografica e che preconizza una sovversione di un ordine mondiale al servizio del «grande Satana». Il fatto è che ogni stato è spinto a situarsi in rapporto a questo nuovo sistema unificato; qualsiasi posizione indipendente lo fa divenire un nemico.

La guerra del Golfo mostra bene l'annullamentodi ogni riferimento alla nazione. In Francia, gli unici a portarlo avanti sono il Fronte Nazionale, il PCF ed alcuni gollisti. Ora tutti, in misura diversa, sono contrari a questa guerra mentre molti di loro hanno una tradizione guerrafondaia. Si è che per gli occidentali non si tratta di difendere una patria, che riconoscono non trovarsi in pericolo, ma di difendere la «libertà», le posizioni strategiche o economiche. Così fino a qualche settimana fa tutti si interrogavano sui rischi di una rinascita del nazionalismo nella Germania unificata mentre la Germania se ne sta tranquilla: pagherà un po' ma non invierà truppe. Da professionista, aspetta che i belligeranti usino le loro armi chimiche per dimostrare l' efficacia del suo materiale. Sotto sotto, arriva sino a non scoraggiare le manifestazioni pacifiste, pure oggetto dell' attenzione di tutti i commentatori della stampa internazionale, che, in mancanza di informazioni sulla guerra, cercano in queste manifestazioni la più piccola traccia di antiamericanismo e di antisemitismo.

In questo nuovo ordine, gli stati non possono più riportare le loro popolazioni sotto la bandiera delle grandi cause nazionali e sono quindi costretti a portare avanti la logica dello Stato, l'unico veramente ragionevole: lui solo è in grado di affrontare i problemi in tutta la loro complessità, mentre il semplice cittadino reagirebbe soltanto in modo spontaneo o appassionato. È la rivincita dello Stato. I media hanno «riscaldato» l'opinione pubblica prima della guerra, ma a partire dall'inizio reale del conflitto hanno perso ogni credibilità e dunque ogni potere. I media parlano, lo Stato agisce. Tuttavia questo non gli permette di mobilitare la popolazione: non si mobilita su una logica di guerra!

Di fronte a questa guerra che voleva essere pulita e fredda (la superiorità della razionalità occidentale!), nonostante gli errori del nuovo barbaro Saddam, la maggioranza della gente si sente come esterna, non coinvolta. Pochi sono apertamente a favore della guerra ma il consenso deve continuare a funzionare, non foss'altro che per l'accettazione del fatto compiuto della guerra.

Malgrado le varie critiche che si possono muovere ai vari movimenti pacifisti, il semplice fatto di dichiararsi contro la guerra, e contro questa guerra, rappresenta già una rottura di tale consenso. Lo si vede nell' attuale rancore dei politici ma anche del cittadino medio contro le manifestazioni o le dichiarazioni che rompono un unanimismo di facciata. Si può dire che questo rancore non dipenda da una posizione politica o morale sulla guerra, ma sia la cattiva coscienza della pace sociale minacciata.

Lyon, febbraio 1991.

Note

1 – Ad eccezione della produzione militare che continua a svilupparsi ed occupa una parte molto importante negli investimenti produttivi di paesi come gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Francia.

2 – Attualmente gli USA cercano di imporre al Giappone l'importazione di un minimo di merci americane

3 – I fornitori di armi sono ritenuti in grado di compensare il rischio corso con il riarmo di altre potenze con quel controllo tecnologico che sarebbe di loro appannaggio. Se il caso della rivoluzione iraniana è sembrato giustificare questo assunto, l'attuale guerra invita a sfumare questo bell'ottimismo.

4 – Non potrà che crescere lo scarto tra, da un lato, le potenze che non hanno (USA) o non hanno più (Francia e Gran Bretagna) una strategia industriale ma che si lasciano guidare dalla logica militar-industriale e, dall' altro, i paesi (Germania, Giappone) che indirizzano i loro sforzi sull'innovazione e la produzione civili. Alcune cifre: il Pentagono spende da solo il 40% degli investimenti USA nella ricerca e in Francia le spese in capitale militare raggiungono il 48% degli investimenti produttivi. Su queste questioni «tecniche» si veda l'articolo di C. Serfati, L'économie française et le fardeau des dépenses militaires (L'economia francese ed il fardello delle spese militari) in Les Temps modemes n. 524, marzo 1990.

5 – Chevènement, ex gollista «di sinistra» e ministro socialista della Difesa francese, si è dimesso nel corso della guerra del Golfo per gravi disaccordi riguardo alla politica del suo governo, a suo avviso troppo filo americana, troppo poco indipendente (NdT).

6 – Le correzioni sono comunque cominciate: ha senso parlare oggi dell'Europa quando il parlamento europeo è stato incapace di prendere una posizione chiara sulla guerra?

7 – L'individuo delle società industrializzate è così contiguo al dominio sul mondo che gli necessita assolutamente di distinguersi dal resto del mondo (i poveri, i barbari, i sottosviluppati) e contemporaneamente di credere necessaria la sua attività di formica. Non bisogna ch'egli si concepisca come nullafacente, sanguisuga del mondo perché allora la smetterebbe con il suo lavoro di formica.

8 – Il termine «classe» è utilizzato qui due volte, non perché sia insuperabile, ma in mancanza d'altro.

9 – Questi nazionalismi arabi hanno svolto un ruolo importante: hanno realizzato un inizio di industrializzazione e di urbanizzazione; hanno copiato il modello di sviluppo capitalista nella sua forma liberale o statale....ma senza andare sino in fondo a causa di un ambiente ostile (affare di Suez) e dell'impossibilità di sviluppare un capitale nazionale (pressioni neocolonialiste).

10 – Questo populismo religioso è insieme il frutto di uno sviluppo nazionale (è urbano) e il segno della sua incompiutezza o del suo scacco: i poveri ammassati nelle città non si trasformeranno in lavoratori. E il nuovo messianismo che si oppone all'Islam sunnita ufficiale, appannaggio dei potenti e cemento delle relazioni tribali nelle zone rurali. Saddam pare abbia imparato la lezione dai suoi otto anni di «contatti» con la rivoluzione islamica. Se il nazionalismo puro e duro non paga, si passerà alla guerra santa.