Contro la guerra e la beatitudine pacifista
Traduttore : Riccardo d'Este
articolo estratto da : AA.VV., La guerra e il suo rovescio, Nautilus, Torino 1991.
Il pacifismo aborrisce la guerra e benedice lo Stato. In tempo di pace, gli è stato insegnato, e vi ha creduto, che la società è un ampio sistema di comunicazione dove tutto viene risolto attraverso il dialogo, in modo nonviolento. L'uso della forza bruta era soltanto più riservato a coloro che, vivacchiando alla periferia di questi vasi comunicanti, si facevano beffe a disperati colpi di pietre del vano sproloquio democratico. Il cittadino pacifista, pur riconoscendo con ciò implicitamente che la sua società non è solamente dialogo ma anche violenza, non è capace di preoccuparsene più di tanto, dato che la violenza è destinata agli altri, ai nuovi selvaggi, che non hanno ancora reso le loro umanità comunicative e si ostinano a pensare che la società è ben più violenta della dolce forza della parola che governa una tavola rotonda. Il pacifista innalza a principio supremo l'immagine nonviolenta che si dà la società dei media, dove si riflette il pacifico corso degli affari capitalisti.
Quando il suo Stato inizia una guerra, gli intima in nome del popolo di adeguarsi a questa rappresentazione idealizzata della vita quotidiana. Imbevuto dell'idea di diritto che lo Stato gli ingiunge di venerare, rifiuta di riconoscere che il monopolio statale della violenza, che garantisce all'interno il rispetto poliziesco della legge, si ripresenta, nel rapporto esterno da Stato a Stato, sotto la forma delle forze armate; e che la guerra è decisiva quando due potenze si affrontano. Come nella politica interna sorvola con noncuranza sulle fondamenta poliziesche del dialogo democratico, così negli affari esteri insiste sull'uso esclusivo della parola, della negoziazione. Come se potesse esserci diritto senza violenza, vuole l'uno senza volere l'altra, vuole lo Stato senza volere la guerra, il principio senza le conseguenze che ne derivano.
Invece di riprendersi davanti a queste conseguenze micidiali, mettendo in discussione il principio che le emana, il pacifista invoca il principio di diritto contro la violenza che gli fa da corollario e fa conseguire da questo procedimento irrazionale la superiorità morale di cui si fregia: che cazzata la guerra. Rivolgendosi così ai suoi governanti, che accusa di incoscienza e di irresponsabilità, si propone come consigliere del principe per illuminarlo sui veri interessi della nazione. E meno verrà ascoltato e più si feliciterà per aver compiuto il suo dovere di cittadino: dire al governo ciò che pensa degli affari pubblici - e tanto peggio per il capo dello Stato se si vede condannare dalla coscienza morale. Finché il cittadino, rivolgendosi al governo, riconosce la legittimità dello Stato, questo può agire come gli par meglio, giacché, contrariamente al cittadino pacifista, non si trattiene, se necessario, dal supplire alle debolezze del suo discorso mettendo in moto il suo potenziale distruttivo, CRS compresi.2
Così il pacifista ha concluso una pace separata con la società capitalista di cui accusa le "sbavature" senza mai prenderla di mira in quanto tale. A questa complicità segreta corrisponde un'azione puramente simbolica. Dispiegando un'attività febbrile, accendendo candele, firmando appelli su appelli, petizioni su petizioni, e strascinandosi la sua opinione sui selciati della città, non fa assolutamente nulla. La pseudoattività dei pacifisti e di altri propagandisti del "diritto a..." imita più o meno consciamente i procedimenti della pubblicità: l'incessante ripetizione di atti simbolici e di slogan riduttivi dovrebbe creare la realtà di un' opposizione contro la guerra e "mobilitare la popolazione". Palesemente, la morale gratuita si vende bene in questi tempi di guerra.
La pratica pacifista è la continuazione, con altri mezzi, dei Life Aid Concerts contro la fame. Situata fuori dal centro produttivo della società capitalista, l'opposizionesi costituisce nella sfera del tempo libero, del divertimento politico, dove il cittadino crede di agire come cittadino autonomo e responsabile, sollevato dall'imposizione capitalista di guadagnarsi la vita. Sulla realtà sociale, questo tipo di opposizione non può far presa; lo scontro avviene nell'irrealtà dei mass media che si propone come unica realtà: mentre i pacifisti producono l'immagine di un' opposizione contro la guerra, i media riducono questa guerra ad un'operazione tecnologica, associata ad un sentimentalismo obbrobrioso. Due interpretazioni, due immagini si scontrano, e la guerra e la società capitalista lasciano fare, e si perpetuano. Da cui la curiosa facilità del cittadino pacifista di ritornare l'indomani ad essere semplice forza lavoro che, per vivere, deve svolgere alcuni compiti tecnici. Qui niente moralizzatori, qui si lavora.
Così l'individuo atomizzato, che non ha altra occupazione sua propria che non sia vegliare sull' equilibrio della sua compatibilità monetaria ed affettiva, si infila, di quando in quando, questa maschera di cittadino pacifista. Lì, sulla strada pubblica, o meglio pubblicitaria, proclama la sua alta moralità contro l'ignavia del quotidiano, che egli continua tuttavia a riprodurre sulla strada privata, sul lavoro. Il pacifista è moralizzatore nella sfera dell'irrealtà mediatica ed agisce senza preoccuparsi della morale nel centro produttivo dello Stato di cui depreca i misfatti guerrieri. Questo carattere doppio del pacifista si chiama, ad essere buoni, impotenza, sennò, e peggio, ipocrisia.
Guerra alla guerra, guerra alla complicità pacifista.
Paris, gennaio 1991
Note
1 – In realtà questo testo è stato diffuso come volantino in quanto supplemento al n. 1 di Temps critiques, ma poiché sono intercorsi dibattiti e divergenze all'interno del gruppo che fa capo alla rivista, ci è parso più corretto firmarlo con l'indicazione del suo autore. Mentre il testo seguente, condiviso dalla quasi totalità dei collaboratori di Temps critiques lo si è lasciato firmato a quel modo ed è uscito come supplemento al n. 2. Altri documenti relativi a questo dibattito vengono pubblicati sulla rivista francese, a cui rimandiamo per la loro conoscenza.
2 – I CRS sono l'equivalente francese della Celere, cioè forze di polizia specializzate nella repressioni di moti di piazza. [NdT]