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Qualche riflessione sull’ultima guerra - Temps critiques

Qualche riflessione sull’ultima guerra

di Temps critiques

articolo estratto da : Anarchismo #68, p. 12-14

Tutte le versioni di questo articolo: [français] [italiano]

Per i paesi dominanti le guerre non sono più condotte da un punto di vista nazionale in quanto non ci sono più territori da difendere contro un nemico estero dopo la fine della politica dei blocchi. Inoltre, l’universalità del capitale e la “libera” circolazione degli uomini hanno da lungo tempo violato I’“integrità” nazionale. Ciò non vuol dire che non vi siano più interessi nazionali ma che quest’ultimi s’inscrivono direttamente in una logica mondiale che li subordina. Così accade per la posizione della Francia. Dopo avere tentato d’affermare, col proprio Stato, una posizione particolare, nazionale, essa si è allineata all’America in nome dei superiori interessi della riproduzione d’insieme del sistema capitalista. E tanto peggio per i suoi interessi nel Medio Oriente.

L’America, per quel che la riguarda. esprime in un modo del tutto congiunturale e instabile la coincidenza tra i suoi interessi particolari di nazione e gli interessi generali del sistema. Nella situazione precedente, l’imperialismo americano imponeva a nome dei suoi interessi nazionali la mondializzazione del sistema capitale-salariato. Dato che attualmente lo stadio raggiunto da questa mondializzazione (unificazione del sistema), al quale partecipano tutti i paesi dominanti, attribuisce all’America un ruolo di difensore del sistema globale in rapporto alle possibili destabilizzazioni dei particolarismi nazionali, strettamente parlando,non c’è più alcun imperialismo americano. La volontà americana di gerarchizzare l’organizzazione del mondo a proprio profitto dipende dal convincimento di quanto la sua posizione sia fragile e temporanea. E in questo senso, si può dire che la guerra è stata anche per essa un tentativo di stabilizzare questa posizione precaria, una tregua.

Anche se i termini opposti: “Nord-Sud”, “Centro-Periferia”, “Paesi ricchi e Paesi poveri”, conservano un certo valore. almeno descrittivo, essi soffrono tutti del fatto di riferirsi ad una situazione superata, quella della politica dei blocchi. L’opposizione tra paesi dominanti e paesi dominati sembra consentirà una migliore comprensione del nuovo scacchiere mondiale. Si possono reperire due tipi di paesi dominanti che possono essere definiti:

– come quelli in cui il livello economico e i cambiamenti tecnologici, espressi socialmente dal consenso interno. assicurano una certa pace sociale (paesi occidentali, Giappone);

– come quelli in cui il potere, quale che sia, determinato dalle contraddizioni relative allo sfruttamento del lavoro. consente una politica non esclusivamente diretta verso l’interno. partecipando, al loro livello. allo scacchiere del mondo (Siria, Iraq, Israele, Arabia Saudita, Turchia).

Il caso dell’ex URSS è stato atipico ma molto chiarificatore per quel che concerne il dominio moderno. Si trattava di un paese dominante che ad un certo momento non aveva più i mezzi per il suo dominio. La storia particolare delle sue lotte di classe non aveva fornito le basi necessarie al fissarsi del consenso né permetteva correlativamente la decentralizzazione delle decisioni economiche e politiche e lo sviluppo di un livello di consumi necessario alle grandi trasformazioni tecnologiche. L’ex URSS aveva si una tecnologia di punta ma la sua chiusura nel complesso militare e industriale non permetteva il passaggio allo stadio superiore, cioè la sua diffusione nel corpo sociale, condizione di un “progresso” d’insieme che resta appannaggio dei paesi occidentali e del Giappone (miniaturizzazione informatica, interconnessione dei settori. socializzazione allargata della ricerca e dei mezzi automatizzati di produzione).

Quindi, nei paesi industriali, nazionalismo e patriottismo non sono più le armi ideologiche adeguate alla costituzione d’una forza di guerra e al suo sostegno in seno alla società. Negli Stati Uniti le manifestazioni nazionaliste sono restate essenzialmente a livello dei media. In Francia i nazionalisti del FN, del PCF e di certe correnti del PS sono state contro la “guerra del Golfo”. La loro opposizione non aveva altro significato che quelle del rifiuto panico dell’internazionalizzazione. L’universalizzazione selvaggia del capitale e del salariato li supera non perché essi criticano i suoi caratteri selvaggi, ma perché scuote la miopia del loro punto di vista. I governi, che de parte loro hanno paura del vuoto ideologico che si è venuto così a creare, non possono che coprire anch’essi gli scopi reali delle loro azioni. La “trasparenza” non è chiesta che agli altri, per sé ci si contenta d’affermare come arma assoluta ad uso dell’opinione, l’ideologia universale dei diritti dell’uomo.

Uccidere per la patria implica la passione (che il sangue impuro inzuppi i nostri campi) e il fatto di assumere la responsabilità di possibili eccessi. Uccidere per i diritti dell’uomo richiede una padronanza di sé, l'intervento pulito al posto della sporca guerra, la distanza e non il contatto. Questa astrazione trova la sua misura nella guerra tecnologica che necessita della stessa passività del lavoro moderno e del consumo.

La società del capitale unificato e la guerra classica sono completamente antinomici perché questa società è quella degli interessi capiti bene dove il principio della vita eretto come bene assoluto (“meglio rossi che morti - dicevano i giovani tedeschi) ha sostituito la vita stessa. Nessun governo occidentale è stato tanto pazzo da andare contra questa nuova forma di diserzione civile, forma tanto più forte e pericolosa, per gli Stati, quanto più resta muta. In Francia, ciò ha condotto i socialisti a dimenticare Jaurès e il suo esercito del popolo e a impegnarsi a non mandare un solo soldato di leva nel Golfo.

É il principio di realtà che impone la sua legge. Anche se ci si oppone allo scatenamento della guerra, se questo ha luogo, si sarà sempre favorevoli a farla terminare al più presto. Di più, perché è senza dubbio una grande occasione per far cogliere ad una parte importante delle popolazioni occidentali il senso della propria situazione nell’ordine mondiale attraverso la crisi di una posizione benestante (inessenzializzazione della forza lavoro, impasse ecologico, ecc.). É questa crisi che produce in una volta la coscienza della propria posizione, il proprio irrigidimento e l’abbandono delle illusioni su di una possibile divisione delle ricchezze a livello mondiale.

La mediatizzazione totalitaria di questa guerra attuata dal mercato mondiale dell’immagine ha mantenuto tutti in una condizione di grande dipendenza riguardo l’avvenimento. L’autonomia di tutti i movimenti contro la guerra si è rivelata per quella che era: un’autonomia nella dipendenza. Davanti all’impasse e all’inanità delle loro azioni, essi si trovarono incatenati all’evoluzione del conflitto, obbligati, in molti casi, a contare su di un incrudelirsi della guerra; alcuni aspettando l’inizio dell’offensiva terrestre, gli altri il richiamo al fronte delle forze di leva. In breve, si reclamava una vera guerra per potersi avere al fine una vera lotta. Certuno, pensandosi più radicale, insisteva negli appelli alla diserzione – e ciò in assenza di soldati di leva – o sul rifiuto della “pace sociale”, per dimostrare che non cadeva nella trappola, che la guerra non era peggio della pace, che l’una era la continuazione dell’altra con mezzi diversi, ma tutti non facevano che esprimere le debolezze teoriche e pratiche dei movimenti critici.

Le armi impiegate in questa guerra mostrano l’aspetto ridicolo degli slogan rivoluzionari. Questo aspetto data di già da Hiroshima, ma le guerre locali di liberazione nazionale (Cuba, Algeria e soprattutto Vietnam) con il loro corteggio mitologico avevano insidiosamente prodotto in certuni l’idea che i popoli in lotta erano invincibili e che la fede o il coraggio poteva sollevare le montagne. Alcuni l’hanno ancora creduto oggi, principalmente nei paesi arabi dove la speranza dello scatenarsi di una guerra terrestre corrisponde al desiderio di una guerra tra “uomini”. La guerra tecnologica, nella misura in cui riduca il numero di uomini necessari al suo funzionamento aumentando nello stesso tempo l’esigenza di qualificazione degli specialisti che impiega, priva di contenuto i modelli storici del passaggio dalla guerra alla guerra rivoluzionaria o guerra civile. La coscienza di questa situazione non è stata sempre esplicita ma il carattere delle azioni contro la guerra, una certa riserva riguardo la violenza esprimevano questo nuovo stato di fatto. Si aveva una coscienza implicita di queste trasformazioni senza che ciò aprisse a nuove prospettive. In effetti la soluzione delle contraddizioni tramite lo scontro diretto tra uomini è scomparsa a causa del predominio inevitabile della materialità tecnica. Ed è l’identificazione degli Stati con questa materialità che ridà vigore alla politica, nello stesso momento in cui vi è una crisi di quest’ultima come forma di regolamentazione dei rapporti tra individuo e Stato. Da cui la paralisi degli individui davanti all’ampiezza del compito, davanti alla necessità di creare altre forze contraddittorie.